Missioni 2019 Ecuador e Perù

Dove c’è vera fede, c’è amore e speranza

La sveglia delle 7:30, dopo più di 15 giorni di sveglia alle 6:30, è quanto meno magica. Preghiamo alle 8 e facciamo mangiamo più o meno in fretta. Un piccolo gruppo di 4 persone parte prima per prendere delle lamiere e dei materassi per le famiglie. Ci rincontriamo tutti quanti nella baraccopoli verso le 9:30, e tutti vanno nelle proprie case per finire i dettagli. Casa per casa facciamo un controllo, ritoccare qualche pezzo con la vernice, tagliare qualche pezzo del telo che va tra le travi e le lamiere, piegare qualche chiodo, sistemare qualche porta e finire di mettere pomelli e altri piccoli dettagli. 

Davanti a una delle case ce una piccola spianata, che allestiamo per la messa. Alle 11:30 ci riuniamo tutti quanti, volontari italiani, famiglie a cui è stata costruita la casa e anche tante altre famiglie della baraccopoli, e tra di loro ci sono sia chi ha già ricevuto una casa negli anni scorsi sia chi resta ancora in attesa. Ho segnato qualche nome, e visitato personalmente le condizioni attuali di tante famiglie. Spero di riuscire a dare loro una casa con il gruppo di adulti, se ci sarà come l’anno in corso una risposta positiva da parte loro, che dovrebbe partire ad aprile del 2020. La messa si fa in due lingue, così da coinvolgere tutti quanti. Anche i canti sono bilingui e soprattutto l’omelia. L’omelia si concentra sul nostro moto: Ce più gioia nel dare che nel ricevere, e molti dei ragazzi vengono a sapere che non si tratta di qualche bella frase inventata da me, ma che è una frase tratta fuori dalla bibbia, precisamente da una delle lettere di san Paolo. E questa va rivolta sia alle persone del posto che ai volontari italiani, visto che ognuno, a partire dalla propria condizione, si è ritrovato a viverla in questi giorni. Sento molto la messa, il contesto, la situazione in cui stiamo, quanto abbiamo fatto, la differenza abissale su certi versi tra le persone che partecipano, da una parte gente poverissima, che non ha veramente niente e per cui la giornata successiva è un’incognita sotto tanti punti di vista, dall’altra ragazzi che hanno tutto, non solo il necessario ma anche tante cose non dico superflue, tante sicuramente arricchiscono la propria umanità e anima, ma tante altre credo le impoveriscono. Ragazzi che sono buoni come il pane, e che in una situazione come questa si trovano a vivere con una libertà e spensieratezza che invidieranno quando saranno di ritorno alle loro città, che sono in fin dei conti i posti dove sono chiamati a crescere e dare frutto. È tutto un gruppo di gente così diversa tra di loro ma così simile, simile nei desideri di essere abbracciati, di essere tirati fuori dall’invisibilità, da sentirsi dire che sono amati e apprezzati, che vanno bene così come sono, senza rinunciare a migliorarsi, ma che ciò non costituisce un giudizio sulla loro persona e neanche una condanna a non essere amati. Tutti quanti desiderosi di libertà, ma la libertà del cuore, di poter amare a partire dalla propria identità senza vergognarsi di ciò che ci manca e amando e abbracciando quanto di originale abbiamo. Così diversi nelle nostre fortune o sfortune, e così vicini nei desideri più autentici dei cuori. 

Finita la messa il padre ha la “fantastica” idea di chiamarmi in causa e rivolgere qualche parola. Da qualche anno non riesco a gestire le emozioni, per quanto sia un bene o un male gestirle, e prima di iniziare a parlare arriva un pianto. Ringrazio per quanto abbiamo ricevuto in questi giorni, e per l’opportunità che ci danno ogni anno di renderci disponibili e di trasformare l’amore in qualcosa di concreto. Ringrazio per le attenzioni, frutto dei sacrifici di queste famiglia. E chiedo di vivere quello stesso amore tra di loro tutto il resto dell’anno. Alla fine, è facile vivere l’accoglienza e il servizio nel confronto dello straniero, comodo direi, perché comunque dura poco nel nostro caso, che siamo qua con loro tre settimane all’anno. E significa uno sforzo reale ma ristretto nel tempo. Invece vivere l’amore nel quotidiano, con chi ti sta accanto ogni giorno, e a cui devi accettare così come è, con tutte le cose che non ti vanno a genio, e imparando a perdonare, è esigente, ma è un amore più vero, perché non suppone la “perfezione” dell’altro, suppone che tu stesso rinunci a gestire tutto e tutti, accogli la realtà, o le realtà, e le ami per ciò che sono senza pretendere di accomodarle a tuo compiacimento. In fondo è come quanto ci capita in famiglia, che siamo sempre, o quasi, più bravi fuori casa di quanto riusciamo dentro casa… in fondo vivere l’amore in modo costante è una sfida che implica la “morte” a sé stessi, e questo atto quasi innaturale mi risulta impossibile se prima uno non trova e si nutre di una fonte inesauribile di amore, che per prima cosa ci libera dall’anonimato, ci riconosce nella nostra unicità e ci dice che andiamo bene così, non in modo arreso, ma che siamo belli, buoni e veri così come siamo…

Andiamo casa per casa a farle benedire, alle parole delle famiglie segue un lungo abbraccio di gruppo e poi la classica foto tutti insieme. Finiamo verso le 14 e mangiamo insieme a loro. Ci hanno cucinato, previa coordinazione con me e il medico di turno, un squisito riso e pollo (strano vero?!), e poi i classici quanto amati picarones. Si torna a casa verso le 16:30. Nonostante abbia fatto una chiamata al riposo pomeridiano (siamo molto stanchi) i ragazzi trovano le forze per organizzare un mini torneo di calciotto. Il prossimo appuntamento è alle 18:30, ci rincontriamo nell’auditorio per ascoltare l’ultima conferenza o catechesi del viaggio, e la tiene Juan Fernando. È sulla vita cristiana. Finita la catechesi i ragazzi rispondono all’ultima riflessione personale disperdendosi nei diversi posti dell’albergo. Mangiamo alle 20 e alle 21 ci riuniamo per fare le riflessioni nei gruppi. A cosa ci serve la fede? Non è una spiegazione razionale quella che ho in mente dinanzi a questa domanda che esce nei gruppi. Posso solo rispondere con un esempio… oggi mentre lasciavo la baraccopoli mi comunicano che è morto il papà di un ragazzo più o meno della mia età. Insistono sul fatto che io deva passare a fare una preghiera in casa, dove si trova il corpo. Piangono tutti, mi avvicino al defunto e faccio una preghiera in silenzio, poi abbraccio il figlio, che piange a singhiozzo mentre da da mangiare il suo piccolo figlio. Poi mi rivolgo alla moglie, con chi ha passato più di 50 anni di vita insieme affrontando la povertà estrema. Lei piange, e l’unica cosa che riesco a dire è che il suo marito ora sta in cielo, veglia su di lei e la aspetta. È stato strano, magico direi, le si illumina il volto, le scappa un sorriso, gli occhi lucidi mi guardano e mi dice: “si, mi sta aspettando e nel frattempo si prende cura di me”… ecco la fede è questo, questa speranza, questa carità, è questa potenza in grado di donare serenità e pace al cuore che passa per momenti di sofferenza e forse di abbandono. È questa forza che trasforma la realtà, non quella esterna, ma quella interna, quella del modo in cui viviamo gli avvenimenti della vita. Per quanto mi riguarda, una vita di fede è solo la garanzia di una vita veramente ricca, di una vita autenticante serena. 

I dialoghi durano fino alle 23, e magicamente vanno tutti a dormire. E questo nonostante abbia dichiarato che il lunedì mattina la sveglia sarebbe stata libera… quindi i ragazzi più che altro hanno scelto di approfittare al massimo le ore di sonno.