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La sveglia doveva essere per tutti alle 7:30, frutto dell’insistenza dei ragazzi vista la stanchezza. L’accordo era però che alle 11:45 dovevano già stare a letto, e soprattutto non iniziare con gli scherzetti notturni. Purtroppo la gioia dell’ora in più di sonno è durata pochissimo, visto che qualche furbo, bulletto, ha messo del dentrificio dentro il sacco a pelo di un altro… quindi la sveglia è slittata di nuovo alle 6:30… preghiera del mattino e partenza alle 9. 

Dalle 10 alle 11 i ragazzi si divisi nelle solite squadre e hanno fatto un ultimo giro di controllo delle case, sistemando e concludendo quello che era rimasto incompiuto i giorno prima. Alle 11 ci siamo radunati nel campo da calcio insieme a tutte le famiglie. Abbiamo fatto una preghiera per iniziare la benedizione delle case e poi casa per casa, preghiera, parole della famiglia beneficiaria e benedizione con l’acqua benedetta. Abbiamo finito verso le 14:30. Ci siamo nuovamente riuniti nel campo da calcio per mangiare insieme quanto le famiglie avevano cucinato per noi. Un pollo al vino, fatto rigorosamente con acqua da bottiglia, del riso in bianco e delle patate cotte. In seguito mega torneo di calcio a 5 squadre, chi vinceva rimaneva in campo. Così la squadra dello staff è rimasta tutto il tempo in campo, vincendo tutte le partite e subendo zero gol! 

Siamo tornati verso le 18 e ci siamo riuniti nell’auditorio, per ascoltare la lettera finale del viaggio. Finita la lettura della lettera, ogni ragazzo ha ricevuto un foglio, una penna, e una busta. Si sono dispersi nei diversi spazi dell’albergo per scrivere la lettera a sé stessi. Alle 20:30 ci siamo rincontrati in auditorio, questa volta per celebrare la messa di fine missioni e avere 30’ di adorazione. Poi abbiamo mangiato, e i ragazzi piano piano hanno avuto nuovamente il loro cellulare. A mezzanotte festeggeremo Alessia, che compie 18 anni e probabilmente faremo “after” fino alle 4 che partiamo verso l’aeroporto. Le missioni si concludono così, e sinceramente ho scritto tanto in questi giorni che in questo preciso momento non saprei cosa altro scrivere. Qua sotto la lettera ai ragazzi, alcune cose fuori contesto magari non si capiscono… ma tutto sommato credo che i ragazzi hanno apprezzato e tanto…

Cosa ti porti nel cuore dopo quest’esperienza? Solo ciò che sei riuscito a custodire nel tuo cuore potrà dare frutto al ritorno alla tua vita dall’altra parte del mondo. Solo ciò a cui sei riuscito a dare un nome, nel bene o nel male, potrà essere una risorsa preziosa per crescere, per migliorarti, per dare sempre la parte più bella di te. Ogni granello di sabbia con il quale hai un po nascosto il tuo cuore, a volte forse anche seppellito totalmente, ha un nome. Ogni seme che hai voluto far crescere dentro al tuo cuore ha un nome. È importante saper dare un nome a ciò che viviamo dentro. Non basta dire “sto bene”, “sto sereno”, “son felice” o “mi sento in pace”, o tante belle e vere cose che vi ho sentito dire in questi 16 giorni passati insieme. Queste frasi rappresentano una realtà che stai vivendo, ma che sgorga dalla profondità del tuo cuore. Sono vissuti, esperienze, emozioni, che hanno dietro un motivo, una causa. E al motivo, o meglio ai motivi, è fondamentale dare un nome perché sarà su quello che potrai costruire d’ora in poi su una terra salda e fertile la persona che vuoi essere, che probabilmente hai sempre voluto essere e che solo timidamente e in determinate situazioni si manifestava, e che forse in questi giorni ha avuto la meglio su tutto ciò che di te non ti piace, che ti allontana dalla parte più bella di te e ti riduce alle tue ferite, paure, insicurezze o ansie, insomma a tutto ciò che in qualche modo ti fa sentire inadeguato, sbagliato, e in fondo ti fa anche percepire quella fame e sete di infinito, di una grandezza che non finisca mai, di un qualcosa in grado di dare senso alla tua vita, a tutta essa, non solo a tutto ciò di cui vai fiero, ma a tutto quanto, persino e forse soprattutto a tutto ciò che ti ha ferito e ti fa soffrire.


All’inizio del nostro viaggio, o meglio appena arrivati alla nostra prima destinazione, abbiamo partecipato insieme alla messa e il Vangelo era proprio adeguato a quanto stavamo iniziando a vivere. La pretesa di poter controllare tutto è un vizio della nostra società moderna. Ma non è vero che possiamo controllare tutto. Molte cose è vero che dipendono da noi, ma pur facendole al dettaglio ci sono tanti aspetti della realtà che scappano a ciò che noi possiamo o vogliamo fare. Da noi dipende solo quanto decidiamo di dare, e vi insisto, bisogna dare il massimo, sforzarsi al massimo a partire da chi tu sei, e dare non solo in senso materialistico, ma in un senso più ampio e profondo. Il Vangelo insomma ci parlava di una folla affamata, e probabilmente possiamo dedurre che era anche molto assetata. Agli apostoli viene chiesto di dare quei cinque pani e due pesci che avevano con sé. Solo dopo che li hanno messi a disposizione del maestro, di Gesù, Dio può operare il miracolo, e si dà da mangiare a una folla immensa partendo solo da quei pochi doni. Non sono un teologo, qualche corso l’ho fatto, ma quelli più basilari. E non è questo il momento per approfondire il miracolo in sé. Ciò che mi sembra più bello e adeguato per quanto abbiamo vissuto è come, per fare una cosa grande, ci può venir chiesto qualcosa di molto piccolo. Appunto come il seme che poi con pazienza, tempo e dedizione può dare luogo a un bosco intero. Non ci viene chiesto di sfamare la folla, ma di mettere a disposizione quei pochi pani e pesci nelle nostre mani. Senza quei pani e pesci niente sarebbe potuto accadere. In questo viaggio, come nella vita, vi è stato chiesto più volte di mettere a disposizione ciò che avete, o meglio ancora ciò che siete. E non importa che sia poco o molto, perfetto o imperfetto, l’unica condizione affinché tutto ciò dia un frutto grande, e parlo di una grandezza qualitativa non quantitativa, era metterci il cuore, mettere quel poco o molto che noi siamo.


Dio senza di te non ce la può fare. E so che questa affermazione può essere molto in contraddizione con tante idee che vi siete fatti su Dio. Dio davvero senza di te non ce la può fare. Sei importante perché sei unico, e come te non c’è stato, non c’è e non ci sarà mai nessuno. Il tuo modo di fare le cose è unico, non tanto a livello pratico, ma soprattutto con il cuore o l’anima che solo tu sei in grado di dare. Il tuo modo di amare è unico, i tuoi sentimenti e le tue emozioni sono uniche. Il modo in cui compi determinati gesti è unico. Come sono uniche tutte le persone a cui solo tuo puoi arrivare in un determinato modo. Sei davvero importante, non solo per Dio, ma per la creazione tutta. Quando parlavamo della profondità abbiamo letto il racconto della creazione contenuto nel libro della genesi. Uno dei più bei messaggi che esso poteva lasciare in voi è che voi, ognuno di voi, è al centro della creazione, siete, siamo, la creatura più importante, più bella, più grande tra tutte quelle uscite dalle mani di Dio. Ogni volta che rinunci a dare il meglio di te, che decidi di non essere la persona più bella che puoi e sei in grado di essere, si perde qualcosa. Perde qualcosa la creazione, perde qualcosa la società, perdono qualcosa quanti ti circondano, perdi qualcosa tu stesso. Niente di quanto abbiamo fatto, di quanto avete fatto, in questi giorni, sarebbe stato possibile senza i tuoi pani e pesci. E allo stesso tempo, niente di quanto avete fatto, sarebbe stato possibile senza la presenza di Dio in mezzo a noi, perché ricordiamolo: è Lui che moltiplica i nostri doni, è Lui l’acqua, la terra e la luce che servono al nostro seme per crescere e dare vita. 


Nella Messa di due giorni fa, il padre ci ha fatto notare qualcosa di molto bello e simbolico per noi a partire dall’esperienza delle famiglie per cui abbiamo costruito le case questa settimana. L’esperienza di dover tirare giù tutta la loro vecchia casa. Tirar giù qualcosa che hai costruito per anni, che è anche frutto di tanti sacrifici e sforzi, una tua sicurezza fino a quel momento indipendentemente da quanto sia bella. Tirare giù il luogo dove hai vissuto diversi momenti, sia di gioia che di sofferenza, ha qualcosa anche di molto duro, direi quasi traumatico, ragazzi. Non so quanto siate consapevoli di questo. Nonostante tutta l’insicurezza che questo può significare, loro lo fanno, ma perché lo fanno? Perché sanno, perché hanno visto, che c’è qualcosa di più bello e grande che li attende. Questa gente è in grado di fare questo sforzo perché sa che potrà avere una casetta più bella, più calda, da riempire nuovamente con nuovi vissuti e dove custodire nella memoria i vissuti passati. Anche a ognuno di voi viene chiesto questo in un certo senso. Si parla però della casa della vostra interiorità. In questi giorni trascorsi insieme avrete probabilmente conosciuto e visto aspetti di voi che o non conoscevate o a cui davate poca importanza. Avete anche visto aspetti di voi che vi sono di intralcio per essere felici, modi di pensare, di porvi, di fare determinate cose, lo sguardo che avete di voi stessi. Ci sarà bisogno, lo vedrete, non solo di dare un nome a tutto ciò, conoscendo voi stessi, ma anche di tirare giù qualcosa, cambiare tanti modi di pensare e di vedere la realtà e voi stessi. Questo è un lavoro che può essere difficile e anche doloroso. Può significare anche aprire vecchie ferite. Ma se volete mantenere ciò che avete vissuto qua, ciò che avete visto di voi stessi qua, vi toccherà farlo, vi toccherà demolire qualcosa per poter costruire e ricostruire con una forza più grande e più solida. 


Quando crediamo di essere già arrivati, che non c’è nulla in noi da cambiare, a volte persino dalla radice, è lì che smettiamo di crescere, è lì che smettiamo di fare affidamento. Quando uno viene qua, in uno di questi viaggi, uno parte con l’idea, almeno quasi tutti, di ciò che si viene a fare per le altre persone. Uno pensa alle persone bisognose che conoscerà e che in qualche modo aiuterà. Ed è vero, avete fatto tante cose belle. Forse la cosa più bella non sono però tutte le cose materiali, così necessarie per loro, ma sono i momenti vissuti con loro, con ogni persona che avete incontrato in questi giorni. Le parole scambiate, i gesti, gli abbracci, i sorrisi, un pensiero, il tempo passato insieme. Ed è il valore di tutto ciò quello che ci dovrebbe portare a chiederci, sinceramente: cosa mi manca di ciò che è essenziale nella vita? Cosa, di ciò che conta veramente, non è in mio possesso o non fa parte della mia quotidianità? A cominciare forse dalla gratitudine. Come tutti gli anni sono rimasto molto toccato dalle parole di ringraziamento che casa per casa, famiglia per famiglia, vi venivano rivolte. Cioè nel fondo lo sappiamo, in un senso non abbiamo fatto tutto questo cambiamento. Abbiamo donato loro qualcosa di bello, quasi giocando, dando il meglio di noi anche se a volte le forze mancavano. Ma loro continuano così, a vivere un po’ così, contando i soldi per poter mangiare, mendicando qualche vestito per proteggersi dal freddo e qualche paio di scarpe a noi avanzate per proteggere i loro piedi. E nonostante questo hanno una leggerezza, che non vuol dire sofferenza, ma purezza. Hanno qualcosa di puro negli occhi quando ti guardano, che potrebbe essere sì timidezza, ma penso sia soprattutto innocenza. Ci hanno ringraziato con il cuore in gola, alcune si sono commosse al punto di piangere, e probabilmente hanno fatto piangere anche noi. Qualcosa che a voi probabilmente è sembrato così piccolo e poco, soprattutto in confronto con tutte le cose belle che avete, per loro è tanto. Ma sapete che… anche se voi non aveste costruito niente per loro, e foste solo venuti per passare del tempo insieme, per giocare con i bambini, magari fare solo qualcosa di produttivo con i compiti, sareste stati accolti e ringraziati allo stesso modo. Esattamente come vi è successo la prima settimana nei pomeriggi ad Arequipa. Non siamo andati a dar loro niente di materiale, solo un po’ del nostro tempo, e guardate, e pensate ai rapporti che si sono stabiliti, all’intensità di essi. C’è qualcosa di molto umano e profondo che trascende ogni nostra differenza. Ammettiamolo, da tanti punti di vista siete diversissimi da loro. Ma c’è qualcosa di più grande che vi ha unito e che ha reso possibile scavalcare qualsiasi tipo di differenza, quel desiderio del fondo del cuore di amare ed essere amati, e aggiungerei anche di lasciarsi amare. 


A volte la prima difficoltà è quella di lasciarsi amare. Non sappiamo più come accogliere l’amore o ci riteniamo, nascostamente, indegni di ciò, come quando abbiamo paura di cercare qualcuno per confidarci perché ci sentiamo in colpa all’idea di essere un peso per l’altro. Abbiamo tutti il bisogno di sentirci amati, ma profondamente amati, come quando ti abbracciano forte e ti senti protetto, riscaldato, al sicuro. Perché l’amore vero fa proprio quello, ci dà sicurezza permettendoci di essere autentici. Non ci sono condizioni per l’amore vero, ti ama e basta, persino prescindendo dalla nostra risposta. Non esiste amore umano, non esiste amore su questa terra, che sia in grado di saziare la fame infinita di amore che abita nel cuore di ognuno di noi, non esiste. Ogni volta che lo cerchiamo in qualche altra persona, affidiamo ad essa un compito che non è in grado di compiere… e non perché questa o questo siano cattivi o non ci amino veramente, ma perché non esiste amore umano infinito, siamo finiti, limitati, non è una questione in termini di negativo o positivo, è un dato di fatto. Lo avrete sentito più di una volta, persino l’amore dei nostri genitori, che è di quanto più vicino all’infinito potrete trovare su questo mondo, è un amore finito, soggetto al limite, e insieme ad esso a tutte le difficoltà personali di qualsiasi persona: l’impazienza, i rancori, la stanchezza… E questo non vuol dire che i nostri genitori non vanno bene, vuol solo dire che ogni amore umano è insufficiente. Come ci spieghiamo cari ragazzi che persino chi ha tutto a casa, persino una famiglia fantastica, provi più o meno le stesse cose, magari con minore intensità, in termini di nostalgia di infinito? Come ci spieghiamo che nelle nostre culture, nel nostro occidente così benestante e con tante facilità e possibilità, ci siano tra i tassi più alti di suicidi tra i giovani o di uso di antidepressivi sin da molto giovani? Il cuore di ogni persona, della persona che tu sei, di quella che in questo momento ti sta accanto, di quelle che hai incontrato in questi giorni e di quanti incontrerai nel futuro ha bisogno di un amore che è molto più grande di qualsiasi amore che potrà mai trovare su questa terra, di una sicurezza che è assolutamente qualitativamente più forte di qualsiasi sicurezza che tu possa guadagnare con le cose materiali o i propri successi. Non è una lode all’essere povero né al non sforzarsi nella vita per raggiungere degli obbiettivi. È un invito a mettere le cose al posto loro, distinguendo che nella vita ci sono cose importanti e secondarie, e ci sono anche quelle essenziali che stanno al di sopra di tutte le altre. È essenziale che tu ti percepisca amato, non che tu prenda il massimo di voti a scuola, il che è importante, ma non essenziale. Puoi essere la persona più ricca al mondo, piena di capacità anche umane, o di successi, ma se non hai amore, se non ti scopri amato, non sei nulla, non hai nulla, davvero. Ma nessuno ti potrà mai amare se non mostri il tuo vero volto. L’amore suppone la verità, prima di tutto di te stesso. Se non sai chi sei e non ti mostri cosi come sei, darai agli altri la possibilità di amare qualcuno che non sei tu, o solo una parte di te, quella più facilmente di amare probabilmente, ma non sarà un amore completo. Perché tante volte ci consentiamo di far male ai nostri genitori in diversi modi? Perché in fondo sappiamo che loro non ci lasceranno mai, ma proprio mai, e un po’ ce ne approfittiamo… insisto, il tuo cuore ha bisogno di un amore che niente su questo mondo può darti. Non esiste persona, successo, materialità che possa colmare il tuo cuore. 


Sei nato per fare cose grandi, ma grandi non di quantità ma di qualità, cioè sei nato per fare cose belle? Quante cose belle hai fatto in queste settimane? E quante cose belle riesci a fare a casa? Cosa pensi che ha reso possibile che tu a fine giornata potessi arrivare a casa, metterti a letto, con il cuore pieno, sereno, persino con un sorriso? Quando ti mancava tutto ciò che ha a che fare con la comodità? Hai fatto cose belle, quelle che danno pace al cuore, quelle che ti permettono di andare a letto a fine giornata con un sorriso e con il cuore in pace! Devi trovare il modo di replicare tutto ciò a casa, perché tu sei chiamato a stare a casa tua, è lì a casa, dove ti ha voluto Dio, che devi seminare e dare frutto. Quali cose belle farai di ritorno a casa, quelle cose che parlano di ciò che sei? Sai che c’è, è normale che alla tua età uno forse abbia più dubbi che certezze. E in realtà non è così importante la quantità o proporzione tra dubbi e certezze. Ciò che è fondamentale, molto molto fondamentale, è che tu abbia la certezza che sei amato, che sei amata e che niente di ciò che hai fatto nel passato, o che hai subito nel passato, può cancellare ciò. In quanto amato sei stato scelto, scelto perché c’è qualcuno che ti conosce più di quanto tu stesso ti conosca e potrai mai farlo, e vede in te una realtà meravigliosa, un capolavoro. Vedendoti ti benedice, cioè dice il bene di te, ti ricorda che la tua vita è preziosa, ha un valore inestimabile, che vale la pena essere te, con tutto ciò che c’è di bello e con tutto ciò che c’è di male o di ferito. Perché appunto è un amore vero, autentico, incondizionato, a prescindere, non è frutto di un tuo merito, è frutto di un amore che sorpassa tutto. È un amore in grado di sanare tutte le tue ferite, è un amore in grado di farti perdonare tutto ciò che inquina il tuo cuore, che lo incatena, che non ti lascia essere libero di amare come vorresti. Ed è soprattutto un amore che nell’amarti, ti prepara per amare, non come vieni amato, perché quello è un opera divina, ma ti aiuta ad avvicinarti a vivere quell’amore infinito e incondizionato di cui ogni cuore umano ha bisogno. E sai che c’è, che quando fai esperienza di questo amore, allora la serenità entra nel tuo cuore, e ti fa star bene, ti fa stare in pace, perché sai che non importa che succeda, tu sei nelle mani di un Padre che ti ama e protegge sempre. Non è che poi non soffrirai, ma che ci potrà essere serenità in mezzo alla sofferenza, assurdo, no? Pace nella sofferenza. Tutto nella tua vita ti serve, assolutamente tutto, anche i momenti più scuri. Tutto questo è possibile perché a Dio niente è impossibile, davvero… 


Ma qual è il volto di questo Dio, è Gesù ragazzi. Quel Gesù che era presente in ogni adorazione che avete fatto. Quel Gesù che dà la vita per gli amici, che ha parole di vita eterna, ovvero di vita infinita, quella che ogni cuore desidera, quel Gesù che ci racconta di questo Padre che ama con un amore che sussiste a prescindere da tutto. Quel Gesù che guarda dentro al nostro cuore e ci ama per ciò che siamo, permettendoci di non dover nascondere nulla, come alla Maddalena e alla Samaritana di cui ci hanno parlato Ben e Juanfer. Ma noi possiamo solo indicarvi una strada, la strada che a noi, ad ognuno di noi consacrati, ha riempito la vita e il cuore. Una strada che non è stata libera di sofferenze, ma una strada di vita piena. Ma sta ad ognuno il percorrerla. E quella è una scelta personale… prova a dare a Dio un’opportunità, forse ti stupirà, ma dagliela davvero, non dargli le briciole del tuo tempo, sforzati davvero, al resto ci penserà Lui. 


Grazie di tutto ragazzi, siete stati, almeno fino al momento, un bellissimo gruppo. Sono stupito che non ci sia stato nessuno, al meno non in modo eclatante, che abbia cercato di risparmiarsi in ogni momento. Avete segnato i cuori di tante persone, e sono sicuro che anche loro hanno segnato i vostri. Grazie dai vostri sorrisi, dalla vostra fiducia, dalle vostre vite. Scusateci se in qualcosa non siamo stati all’altezza, o abbastanza disponibili, o se c’è qualcosa che venendo male vi ha portato malessere. 


Grazie a voi ragazzi dello staff, senza di voi questo viaggio non sarebbe stato ciò che è stato, so che suona un po scontata come frase, ma è vera, siete stati, quasi sempre, un grandissimo sollievo per me e per gli altri consacrati. E a voi toccherebbe dedicare un altra lettera, ma penso che questa vi possa comunque servire in qualche modo. Grazie di cuore a ognuno di voi. 


Grazie anche ai miei confratelli per la vostra testimonianza di fede e la vostra disponibilità per tutti questi ragazzi. Grazie speciali a padre Gonzalo, che bello poter contare su un sacerdote in una esperienza come questa. Che peccato che con il passo del tempo le persone facciano più difficoltà a percepire e risponder a una possibile chiamata al sacerdozio, forse non siamo abbastanza consapevoli di tutto ciò che perderemmo se loro non ci fossero. 


Grazie, anche se non sono qua presenti, alle persone che ci hanno dato l’opportunità di aiutarle. Credo che ognuno di noi è molto debitore di loro.


Infine, grazie Dio, che con quell’amore incondizionato ci ha nutrito lungo tutto questo viaggio. Se abbiamo potuto vivere tutto ciò che è stato questo viaggio, è prima di tutto opera Sua. 

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Ultima vera giornata di lavoro. Sveglia ormai abituale delle 06:30 seguita dalla preghiera del mattino e subito dopo l’ultima delle conferenze del viaggio, e questa volta è il turno di Juan Fernando. In un certo senso è la conferenza più scontata di tutte, non nei contenuti ma si nella tematica. Sin dal primo giorno, da quando i ragazzi hanno saputo che avevano a che fare con dei consacrati, che per carità dice tutto e niente in un certo senso e non è così semplice da spiegare. Infatti per molti a primo impatto noi consacrati siamo una sorta di preti mancati, qualcuno che è rimasto a metà tra i “privilegi” del sacerdote e i “piaceri” dello sposato. Ma non è questa la sede per dare una spiegazione. Da quando hanno visto poi che il numero di consacrati si sarebbe moltiplicato con il passare dei giorni, e che tra il gruppo, per la prima volta nella storia delle missioni ci sarebbe stato un sacerdote, un punto di provocazione continuo, sia da parte loro che nostra, è stato questo Dio del quale tanto si parla ma, come ho detto in un post precedente, del quale non soltanto si sa così poco ma si è fatta così poca esperienza. Questo diventava ancora più esplicito quando sia i consacrati che i ragazzi dello staff partecipavano ogni giorno della messa e dell’adorazione… e ancora di più quando con il passare dei giorni la partecipazione dei ragazzi “normali” a questi due eventi si moltiplicava. Insieme a questo molti poi sono anche passati dal sacramento della riconciliazione, cioè la confessione. Insomma la conferenza di Juan Fernando è stata su Dio, come Colui che è l’unico in grado di saziare la nostra sete di infinito, quella sete che non trova la pace finché non si sazia da un amore infinito e incondizionato. Riprendendo un po tutti gli elementi di queste due e passa settimane: l’acqua, la terra fertile, il seme, la luce, il deserto, la sabbia, Juan Fernando ha dato ai ragazzi uno sguardo diverso sul Dio di noi cristiani e insieme sulla sete profonda di ogni uomo e donna, che non può, perché niente di questo mondo è in grado di saziarla, trovare conforto con le “cose di questo mondo”. Un invito a coltivare, in ogni aspetto della nostra vita ciò che è essenziale, e soprattutto a che questo viaggio sia uno, il primo, dei tanti passi verso la conoscenza di questo Amore grande e puro che nel fondo del nostro cuore tutti noi vogliamo. 

Siamo partiti verso le 9, divisi in due gruppi. Due terzi dritti al campo di lavoro, un terzo dritto in supermercato per prendere un po di cose utili alle famiglie per le quali abbiamo costruito questa settimana. È stata proprio una bella sorpresa vedere che nell’arrivare alla baraccopoli, c’era un sole pazzesco, cioè pazzesco per la “media di quantità di sole” che uno riesce a intravedere da queste parti, un sole che già timidamente si era mostrato il pomeriggio prima di partire il giorno precedente. Poi è stato particolarmente bello perché Juan Fernando, tra gli esempi usati nella sua catechesi, c’era proprio quello di Dio come il sole che a volte si può nascondere, ma questo non vuol dire che non ci sia, o che non esista. Ci possono essere giornate pieni di nuvoli nella nostra vita, ma questo non mette in dubbio l’esistenza del sole. Lavorando qua a Cañete tutti questi giorni in cui non abbiamo, avevamo, mai visto il sole, non erano pochi i ragazzi che si avvicinavano a chiederci se qua proprio il sole non ci fosse… si può chiamare anche coincidenza, ma io ritengo una grazia che proprio il giorno in cui si fa accenno a questo esempio, del sole che sussiste nonostante le nuvole e come Dio sussiste nonostante le sofferenze e le difficoltà, che proprio oggi ci sia stata una giornata di sole e che non sia durata qualche poche ore ma sia durato tutta la giornata. 

I ragazzi hanno lavorato benissimo, non solo oggi ma tutti i giorni. E qualsiasi difficoltà a livello caratteriale è più che comprensibile se si tiene conto del gran numero di partecipanti e la stanchezza accumulata in tutti questi giorni. La presenza evidente del sole poi ha reso tutto più allegro. È vero che la fatica è più grande, ma bisogna dire che si lavora molto meglio con il sole che senza. Così i lavori sono andati avanti fino alle 18, quando il sole inizia a tramontare. Cioè in realtà la decisione sull’orario era per puntare a finire tutte le case e ciò vuol dire avvitare tutte le finestre e verniciare tutte le case. Alla fine ce l’abbiamo fatta, ce l’hanno fatta, e si è lasciato solo qualche piccolo ritocco per la giornata di domani. Arrivati a casa verso le 19 i ragazzi hanno potuto passare del tempo tra di loro mentre aspettavano per farsi la doccia. Alle 20:30 abbiamo mangiato, e infine, verso le 21:30 ci risiamo riuniti per l’ultimo briefing, comunicando gli orari della giornata successiva e il punto della situazione con ognuna delle case. Abbiamo divisi in gruppi i maschi e “spedito” le ragazze a fare l’ultima delle loro meditazioni. 

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Missioni 2019 Perù

Ormai la sveglia delle 6:30 è diventata un classico, bisogno approfittare bene la giornata senza sacrificare le attività serali… Poi una cosa sorprendente dei ragazzi è che pur sapendo che il giorno dopo si devono svegliare alle 6:30, e pur finendo le attività verso le 11 di sera, non è che vanno di corsa a dormire, stanno fino a mezzanotte in giro a chiacchierare… e a dire il vero potrebbero andare ben oltre se non fosse perché i ragazzi dello staff, arrivata la mezzanotte iniziano a spedirli nelle loro stanze. 

Preghiera del mattino e colazione alle 7, e partenza verso le 8. Verso le 9 siamo già nella baraccopoli che quest’anno ci accoglie. Pian piano che scendiamo dai pullman ci distribuiamo nei nostri gruppi e si va a lavorare. L’obbiettivo della giornata è completare una casa e arrivare al meno fino alla struttura del tetto della seconda casa per gruppo. Devo dire che praticamente tutti i gruppi ce l’hanno fatta. Come ho già accennato qualche giorno fa, sono i giorni più difficili, la stanchezza si sente molto di più, ma sono anche in un certo senso i giorni più felici. E in un altro senso sono i giorni che alcuni vivono con una certa preoccupazione. Da una parte la voglia di tornare a casa, dall’altra la paura di perdere un qualcosa che vivendolo qua, a molti di loro, ha dato una felicità diversa, un senso diverso, una serenità particolare quanto ambita. 

Si lavora quindi per 4/5 ore di fila, una breve pausa pranzo e poi si prosegue per altre 3 ore fino alle 17. Abbiamo deciso di fare la messa domenicale oggi, sabato, visto che domenica ci sono troppi impegni e si rischia di fare tutto all’ultimo. Alle 19:30 quindi ci incontriamo nel nostro auditorio/cappella o cappella/auditorio, allestito dal padre e dal team liturgico, cioè Dani e Juanfer. 

L’omelia di padre Gonzalo è arrivata dal cielo proprio. Cioè sicuramente per i ragazzi sono state delle parole importanti e belle. E per me fonte di ispirazione di questo post, dinanzi al quale, tra fatica e tante cose dette ogni giorno, non sapevo bene cosa dire, scrivere, fino al momento dell’omelia. Le case in questi giorni hanno preso forma, e alla fine della giornata di oggi i risultati erano molto evidenti. Ma dietro questo ce tutto uno sforzo, e non parlo dello sforzo dei ragazzi, ma di quello fisico e insieme interiore delle famiglie per cui viene costruita la casa. Poter avere la casa nuova, vuol dire tirare giù la casa vecchia. È una casa vecchia nella quale probabilmente la famiglia ha più di 3/4 anni. La casa vecchia, è brutta, è indegna sicuramente, e viene rimossa con un senso di speranza, ma è anche vero che è frutto di anni di lavoro, di sforzo, di impegno, di soldini risparmiati con pazienza, nell’attesa di trovare qualcosa di meglio, di costruirsi un riparo. Tirare giù tutto ciò, è veramente un’esperienza dura. È far venire a meno qualcosa che è frutto di sacrificio, è tirare giù qualcosa che ti è servito di riparo per anni, e che custodisce, nonostante tutte le possibili scomodità e sofferenze, anche tanti bei ricordi. È una cosa che è stata testimonio della vita di queste persone per anni. Bene, tirarla giù non è facile e potrebbe anche far paura. Ma ciò che ti porta a farlo, a rimuovere la casa vecchia, è la speranza, certezza, che ce qualcosa di più grande e bello in gioco, e così ogni sacrificio può valere la pena. Questo è un po l’invito rivolto a tutti noi da quest’esperienza. Anche noi abbiamo costruito una casa, con fatica, con cose belle, ma anche cose non così belle, frutto da tutte le esperienze raccolte lungo le nostre vite, lunghe o corte che siano fino a questo momento. La nostra casa interiore è un insieme di sicurezze e insicurezze, di sguardi su noi stessi che tante volte sono molto ingiusti con la realtà di ciò che siamo. E forse in questi giorni abbiamo visto che ce in noi anche la possibilità di costruire una casa nuova. E in alcuni casi tante cose dovranno essere rase al suolo, mentre in altri si potrà ripartire da ciò che già abbiamo. Ci sono quindi due esercizi da dare: un primo movimento che parte dalla conoscenza di noi stessi e che significa discernere per decidere cosa ce della nostra cosa interiore che va tolto, cosa demolito, e cosa fortificato. Ma questo non accadrà senza un altro esercizio, che è quello di conoscere la casa che voglio avere. Non rinuncerei mai alla persona che sono, alla mia casa interiore, se da una parte non provo l’esperienza dell’insoddisfazione dinanzi a questa casa, un’insoddisfazione che può avere tratti negativi ma può anche essere percepita come mancanza di qualcosa di più. E se dall’altra parte non intravedo, in qualche modo, la casa che potrei essere. Nessuno farebbe mai un lavoro di demolizione se non sa e ha una vera certezza sulla casa che sono effettivamente in grado di raggiungere, quindi non tanto una casa ideale ma una casa che parta dalla realtà che io sono autenticamente e non quella che tante volte mi racconto di essere. Se sono legno non potrò mai fare di me una casa di concreto, e qua non c’entra nessuna fastidiosa comparazione di quali materiali siano più forti o meno, o adeguati, semplicemente si tratta di essere fedeli a chi si è, perché solo a partire da quella fedeltà possiamo arrivare ad essere ciò che siamo chiamati ad essere e di conseguenza anche a fare.

Dopo mangiato ci siamo incontrati solo con i caposquadra delle case. Domani, domenica e speriamo anche ultimo giorno di lavoro, all’inizio della giornata ogni squadra destinerà due persone per fare la spesa per la famiglia, mentre gli altri membri della squadra si divideranno tra verniciare e finire il secondo tetto. Infine, mentre i ragazzi facevano la quarta meditazione, le ragazze sono state divise in 7 gruppi di riflessione. Verso le 11 e qualcosa avevamo finito con tutti i gruppi, e piano piano, con l’aiuto dello staff, i ragazzi andavano a letto…

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Missioni 2019 Perù

Decidiamo, cioè decido insieme allo staff, che la sveglia di oggi sia alle 6:30. Oggi è giornata di conferenza e preferiamo farla, come già da qualche giorno, la mattina presto, prima di andare a lavoro. Questa scelta si rivela vincente, soprattutto perché negli ultimi giorni i ragazzi sono particolarmente stanchi. Il lavoro fisico e continuo lungo la giornata, insieme all’accumulo della stanchezza di queste due settimane da queste parti, si fanno sentire. Tra le 7 e le 8 quindi ha luogo la preghiera del mattino e subito dopo ci incontriamo tutti in auditorio per ascoltare Giovanni che ci parlerà dell’amore. 

Si inizia con un accenno alla nostalgia di casa. In effetti, in questi ultimi giorni, con l’avvicinarsi della partenza, si vive un po una situazione ambigua. Da una parte si immaginano le prime cose che si faranno al rientro in Italia, dal cibo (che tanto manca) alle persone o posti che si visiteranno. Dall’altra parte, ce una parte nei ragazzi che vorrebbe rimanere qua, non tanto il luogo fisico, quanto il luogo interiore, nel cuore, che è sorto pian piano a partire dai vissuti di questi giorni. Non è quindi tanto il Perù di per sé, quanto l’esserci in missione, fare del bene ogni giorno, tra amici scoperti sotto un altro modo di guardarli, con giornate piene di senso, con la fatica che si trasforma in gioia, con un altro modo di guardare sé stessi. 

Per Giovanni, come per tutti noi che li accompagniamo, è chiaro che questa è un’esperienza d’amore. E che è quello stesso amore, sotto le sue diverse forme, la promessa di cui ogni cuore ha sete e fame, e quel gesto infinito capace di saziare la nostalgia di infinito che ogni cuore umano ha. Ma viviamo in un contesto dove l’amore è tante volte merce di scambio, siamo quasi allenati a viverlo così, a misurare ogni gesto nell’attesa di essere ricambiati… ma un amore così, a mio modo di vedere, non è un amore vero, è solo una caricatura di esso, perché l’amore vero deve essere per definizione gratuito. Giovanni elenca per i ragazzi tre, tra tante possibili, caratteristiche dell’amore. L’amore è così la possibilità di una promessa di un per sempre, è anche la verità su noi stessi, ed infine è un’esperienza di libertà. Si potrebbero scrivere paragrafi infiniti a partire da questi tre aspetti. Si potrebbero anche accendere dei dibattiti, perché a nessuno piace sentirsi dire cosa è l’amore, meno ancora in un contesto dove ormai cinicamente quasi ci si arrende dinanzi all’impossibilità di un amore che sia per sempre. Effettivamente è tosta, soprattutto quando dall’equazione dell’amore si toglie l’elemento sacrificio. Ma che sia tosta non toglie che sia, in fondo, ciò che ogni cuore desidera e ciò che a ogni persona farebbe tanto bene. La garanzia di un amore non solo gratuito, ma capace di pronunciare il per sempre.

Lasciamo il locale che ci accoglie verso le 9 e arriviamo alle 10 alla baraccopoli. Lì, dove ogni giorno iniziamo i nostri lavori, ci aspettano tre camion con il secondo gruppo di case, i materiali per le altre 14 case restanti. Lo scarico si realizza in tempi record. 50’ e via. Ma poi si passa alla parte più pesante, cioè trasportare tutti i pezzi di ogni casa nei propri terreni. I ragazzi hanno l’ordine di non continuare con i lavori nelle prime case finché tutti i materiali non siano nei loro rispettivi terreni. Ho anche disposto che finché questo non sia compiuto, nessuno potrà mangiare. Non per fare il cattivo di turno, ma perché la pausa pranzo significa una pausa significativa che raffredda tutto. Ho notato che oggi, purtroppo, i ragazzi, essendo più stanchi, sono più irascibili e meno tollerabili in generale tra di loro. Cosa che loro stessi riconoscono più tardi nel briefing. Abbondano le storie di quante, scusate la parola ma è quella usata da loro, “sgravate” ci sono state tra uno e l’altro. Riconoscono che la stanchezza, e a un certo punto anche la fame, hanno avuto degli effetti poco consoni con il viaggio. 

Si mangia finalmente verso le 14:15, 45’ più tardi del solito. Niente di terribile a dire il vero. Verso le 15 si ricomincia. L’obbiettivo è quello di finire almeno una delle due case e avviarsi con i primi passi delle seconde. Oggi siamo un po’ più lenti del solito, e come riflettevo ieri, tanti piccoli errori alla base della costruzione delle diverse case hanno significato un bel pasticcio, e in alcuni casi parecchio grande, quando siamo arrivati a dover costruire la struttura per il tetto. Personalmente ho dovuto smontare e rimontare due case. La scusa più frequente tra i ragazzi è: “Nando il legno non è buono”… peccato che da quando costruisco le case non mi è mai capitato un legno non buono, cioè per carità è ovvio che non sono perfetti, ma certe impossibilità di unione tra determinate mura non sono per il legno, ma per i famosi pavimenti livellati male! A peggiorare le cose è il fatto che i ragazzi pensano che per risolvere si deva usare la forza, ma così rovinano ulteriormente le mura. In realtà quello che ci vorrebbe è osservare attentamente a dove sta l’errore. A volte basta alzare di poco qualche pezzo e, magicamente, due muri diventano totalmente complementari. Lavoriamo fino alle 17, saliamo sui pullman e torniamo a casa. Messa alle 19 e adorazione dalle 19:30 alle 20:30, quando mangiamo. Usualmente in ogni adorazione ce Benji che canta, e così accompagna la nostra preghiera. Non ho capito bene ma oggi ha scioperato, e quindi niente canti per l’adorazione. Per noi più grandi non è un problema o difficoltà, essendo allenati al silenzio e allo stare con noi stessi in preghiera. Ma per i ragazzi, che danno i primi passi, e spero di cuore non gli ultimi, può essere pesante, tranne per qualche anima miracolata e toccata dallo Spirito ovviamente! Quindi noi consacrati rimasti, cioè in realtà un paio, prendiamo l’iniziativa di cantare. Il risultato non è il massimo, soprattutto se paragonato a Benji, però alla fine cantiamo tutti, ragazzi compressi, e si riesce a portare avanti un bel momento di preghiera. 

Dopo aver mangiato ci riuniamo più o meno in fretta in auditorio, oggi vorremmo fare presto per andare a letto quanto prima. Infatti io decido di non dirigere nessun gruppo, così mi porto avanti sia con questo diario, che con l’organizzazione del secondo gruppo di missioni, che parte tra una settimana esatta dall’Italia e ha come destino prima l’Ecuador e poi il Perù. Solito briefing sulla giornata di domani e qualche accenno a quanto ho visto stamattina. Il riassunto del mio messaggio è che non mi interessa se ricostruiamo tutte le baraccopoli circostanti se facendolo ci manchiamo di rispetto e di amore tra di noi, se siamo poco tollerabili, soprattutto con chi è più debole fisicamente e se invece di aiutarci tra di noi l’ambiente diventa una sorta di gara per vedere chi lancia la frecciatina più acida del momento. È vero che non si può generalizzare, ma come dicevo prima, gli stessi ragazzi hanno riconosciuto che tra una cosa e l’altra oggi era stata una giornata difficile, tosta, con tanto nervosismo e che qualcuno non ha potuto fare a meno di tirare fuori il peggio di sé. È esattamente quello che dicevo qualche giorno prima, desideriamo nel profondo fare cose belle, fare del bene, testimoniare la verità di noi stessi, ma non ci riusciamo… non da soli, non con le sole proprie forze. 

Comunico anche ai ragazzi che sabato la sveglia sarà alle 6:30, non siamo indietrissimo con il lavoro ma preferisco prevenire ora che poi fare tutto all’ultimo e in fretta. Le ragazze si disperdono nei diversi spazi dell’albergo per fare la quarta meditazione personale, mentre divido i ragazzi in 6 gruppi per il dialogo sulla conferenza di questa mattina. 

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Missioni 2019 Perù

La sveglia d’oggi si è spostata di 30’. Anziché le 6:30 per oggi la sveglia sarà quella solita, delle 7, e il programma della giornata abbastanza semplice: 7:30 preghiera e poi prima colazione, ci si prepara per il lavoro e si parte verso le 9:00. Arriviamo quindi al nostro destino verso le 9:40 e verso le 10, o poco prima, siamo già divisi nei vari gruppi, 14, e iniziamo a costruire le prime 14 case, una casa a gruppo. Prima però un breve controllo, visto che il giorno prima una ragazza è venuta disperata da me dicendomi che non trovava lo zaino, che lo aveva dimenticato nella baraccopoli, e che il guaio era che lì dentro c’era il suo passaporto. Io non ho idea sul perché una delle ragazze avrebbe la geniale idea di portarsi dietro il passaporto, in baraccopoli poi! Sorpresa la mia, che in realtà non dovrebbe sorprendermi più di tanto visto che con tutti questi anni di viaggi di volontariato dovrei già sapere perfettamente che la creatività dei ragazzi supera ogni limite e che la realtà sconfigge la fantasia praticamente sempre… Prima di andare a lavorare quindi lancio una domanda: Ragazzi, chi di voi si è portato dietro il passaporto? 11 manine si alzano, tra cui 6 tra i ragazzi che c’erano già con noi l’anno scorso… perché certo a uno verrebbe da pensare che se sei già venuto in questi viaggi prima, sai perfettamente che il documento di viaggio non te lo porti nella baraccopoli… invece no! Quindi niente, prendo uno a uno i passaporti e li metto al sicuro in macchina… 

La prima parte del lavoro è sempre la più complicata. Si tratta di livellare le base dei tre pavimenti che costituiscono una casa. Si sceglie il punto più basso del terreno, e si colloca, assicurandosi che le misure in torno bastino per far entrare la casa, il primo dei blocchi di cemento. Poi si gioca con i “metri”, ogni coppia di ragazzi prende in mano un metro e giocando con le dimensioni deve far coincidere in ogni angolo la propria misura in modo di creare un rettangolo il più perfetto possibile. Altrimenti i pavimenti non riusciranno a stare nel suo posto, ci sarà sempre, probabilmente, un angolo che rimarrà in aria. Diciamo che è un po complesso da spiegare, e l’unico modo, in realtà, è facendone esperienza. Una volta che si sa più o meno dove vanno collocati i blocchi di cemento, si procedere a livellarli, cioè devo stare alla stessa altezza in riferimento alla superficie. Per cui dipendendo dal terreno, ci saranno blocchi di cemento che andranno seppelliti poco, tanto o tantissimo… e in alcuni casi, il meno possibile, ci saranno anche dei blocchi da rialzare. Quando si è sicuri di avere almeno 4 blocchi nel suo posto e nella giusta altezza, si procede a piazzare il primo pavimento, e in seguito, con una livella (io preferisco quelle meccaniche diciamo, mentre molti dei ragazzi dello staff, avendo il cellulare, preferiscono le app!).

E si va avanti così fino a mettere il terzo pavimento. In realtà qua ci sono scuole di “pensiero”. Alcuni dei ragazzi più esperti preferiscono di mettere tutti e tre pavimenti prima di alzare le mura. Io sono dell’idea di iniziare ad alzare le mura appena si è piazzato il secondo pavimento. Poi io parlo di ragazzi più esperti… ma si dice così, un po’ a buffo. Qual è stata la mia sorpresa quando facendo un breve giro delle case dopo aver lasciato ben avviato il mio gruppo, mi ritrovo un membro antichissimo dello staff (6 anni di missioni di fila) che stava montando una casa praticamente al contrario… 

La giornata di lavoro va avanti fino alle 17 con una pausa per mangiare a metà giornata di circa un ora. C’è chi fa più difficoltà con le fondamenta dei pavimenti, il che è totalmente normale. Abbiamo insistito di lavorare in modo costante ma tranquillo, senza perdere inutilmente il tempo e allo stesso tempo senza privarsi del passare del tempo con le persone per cui lavoriamo. Serve molta consapevolezza che questa prima parte della costruzione è fondamentale, dei piccoli sbagli all’inizio, piccoli dislivelli, possono significare una grande difficoltà più avanti. È un po come la vita, come quanto abbiamo cercato di trasmettere ai ragazzi mentre eravamo ad Arequipa. Questi primi passi, più ripetitivi, più noiosi a volte, che hanno bisogno di più cura e decisione, a prima vista possono sembrare esagerati, ma in realtà sono il fondamento di tutto ciò che verrà dopo. Un piccolo errore all’inizio può significare un grosso “disastro” con il tempo. Infatti, lasciare un pavimento non livellato, o livellato mediocremente, significherà che le mura di quella casa non chiuderanno bene, e si dovrà risolvere o rifacendo tutto da capo, o forzando il legno, il che può significare rovinare le mura… e anche questo è un po come la vita… tutte le nostre ferite irrisolte, per quanto possano essere risolvibili, prima o poi tornano a chiederci il conto, e le conseguenze si vedono già dallo sguardo che abbiamo su noi stessi, e sui nostri rapporti personali, soprattutto con le persone a noi più care. Quando i ragazzi ci si avvicinano per chiederci consiglio su qualche realtà che a loro sta a cuore e che vivono con sofferenza, ce molto poco che possiamo fare a livello di soluzioni, non sta nelle nostre mani, e tante volte neanche nelle loro mani… ma mi piace consigliare come prima cosa: cerca di avere uno sguardo di amore verso te stesso, e solo dopo, con la forza di quello sguardo, potrai dare lo stesso trattamento a quanto ti circonda, avrai lo stesso sguardo non soltanto verso te stesso ma verso quanti fanno parte della tua vita. Credo che tutto il lavoro inizi da lì, prima ancora delle nostre relazioni o da cose da cambiare qua e là nella nostra vita pratica. Finché non abbiamo uno sguardo d’amore verso noi stessi non saremo veramente liberi di guardare il bello che ce in noi e apprezzarci per ciò che siamo autenticamente. 

Molte delle case sono a buon punto, alcune pochissime sono un po indietro, e un paio hanno già iniziato con il tetto. Verso le 18 siamo a casa e iniziano le gare per la doccia. Ce la messa alle 19 e poi l’adorazione, e ho chiesto di dare la precedenza della doccia a chi vuole partecipare della messa… quindi alcuni si giocano il “jolly” messa per usare il bagno per primi, e spero che siano stati poi gli stessi che sono venuti a messa. Alle 19 quindi inizia la messa, siamo una ventina, ed essa finisce verso le 19.30 che è quando iniziamo l’adorazione… e poi dal nulla (dico dal nulla perché la partecipazione a queste due attività quotidiane non è obbligatoria) entrano una trentina tra ragazzi e ragazze per fare questo momento di preghiera che va avanti fino alle 20.30. La preghiera viene accompagnata da dei canti, e dai testi spirituali per la riflessione, e non nascondo il mio stupore nel vedere tutti questi ragazzi che hanno “resistito” un ora di silenzio e meditazione. Credo siano dei tempi di qualità che tanto ci mancano quando siamo a casa, e quasi per assurdo sono dei momenti in cui, in un certo senso, ci sentiamo più a casa, più al sicuro, più con noi stessi nella libertà di essere chi siamo autenticamente. Molti, direi la stragrande maggioranza, non hanno mai partecipato prima ad un momento di adorazione (tranne i romani che vengono spesso da noi in comunità e i milanesi che conosciamo da più tempo), e pur non sapendo bene di cosa si tratta, l’esperienza comune per quasi tutti è la stessa: “quanto è bella l’adorazione!”.

Dopo mangiato ci ritroviamo in auditorio per l’ordine del giorno, i maschi restano lì per fare la terza meditazione scritta, mentre le ragazze vengono divise in gruppi per riflettere sulla conferenza del giorno precedente. I dialoghi vanno avanti fino alle 23:30, e verso mezzanotte e passa i ragazzi dello staff iniziano a spedire nelle stanze ai ragazzi ancora svegli.

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Missioni 2019 Perù

Prima giornata di lavoro pesante quella di mercoledì 3 luglio. Ma anche una giornata piena di eventi. Si riprendono le conferenze, i gruppi e meditazioni, riprendiamo anche con la messa e adorazione post lavoro, si festeggia il compleanno di Pietro, che di anni ne ha fatti 16, e si guarda, con un tifo quasi all’unisono blanquirojo, cioè peruviano, le semifinali di Copa America tra Perù e Cile. Quindi devo dire una giornata molto carica sia quantitativa che qualitativa. 

Decido quindi di iniziare la giornata più presto del solito, con la sveglia alle 6:30 sperando di essere pronti per la preghiera del mattino verso le 7… molti sono stanchi dai giorni di “riposo” tra Cusco e Machu Picchu… e l’altra “metà” del gruppo è troppo riposata come per andare a letto presto la notte prima. A questo si aggiunge il fatto che le stanze sono giganti: abbiamo 4 stanze da ragazzi da 12, 10, 12 e 14; e 4 da ragazze da 6, 7, riservate alle ragazze del secondo anno, e due da 14 riservate alle ragazze del primo anno. Nel caso dei ragazzi li ho mischiati tutti quanti. La preghiera non inizia prima delle 7:20, molti si sono riaddormentati dopo la delicata sveglia dei ragazzi dello staff, alcune ragazze ritardano (a causa del truccarsi dicono quelle arrivate per primo, e in fondo ai miei pensieri spero che non sia vero quanto hanno ascoltato i miei orecchi), altri semplicemente se la prendono comodamente. 

Finito di mangiare andiamo tutti quanti in auditorio, per la terza conferenza del viaggio. È da un po di anni, direi 3 o 4, che la terza conferenza tocca a me. Ho il vantaggio di avere un filo conduttore abbastanza chiaro da seguire, ritoccandolo ogni anno con esempi tratti dagli incontri fatti, libri letti, cose osservate, esperienze vissute, sia mie che nella pelle di altri, che hanno un po scandito tutto l’anno precedente. Ho lo svantaggio, almeno soggettivamente, di avere dentro tante cose da dire, di non saper darli un ordine e in fondo di non lasciare qualche inquietudine ai ragazzi per andare ancora più in profondità nei propri cuori, lì dove si gioca la nostra libertà, la nostra coscienza e dove Dio ci chiama e parla per nome. Mi tocca quindi parlare degli “idoli”, dei responsabili, insieme alla nostra libertà usata male, dell’esperienza di insoddisfazione, frustrazione, vuoto interiore, che tante volte portiamo un po tutti, e che non fa differenza di età o di sesso o di origine. Quando facciamo di qualcosa di superfluo il centro della nostra vita e delle nostre preoccupazioni, e superfluo non lo sono solo le cose materiali, ma anche atteggiamenti interiori, poca generosità, egoismo con il proprio tempo, lasciamo che il proprio cuore si chiuda, si indurisca, diventi anche cinico, e questo ci lascia frustrati. Ci lascia frustrati perché facciamo il contrario di ciò per cui esistiamo: amare, donare, ricercare il vero, il bello e il buono. A volte non siamo consapevoli di quanti idoli assecondiamo nella nostra vita, realtà a cui diamo un potere su di noi al punto di possederci, di controllarci, di gestirci. L’elenco potrebbe essere infinito, e nessuno di noi si salva… credo che la questione si inizia a risolvere con un autentico esame di coscienza, con un sincero andare in fondo alle cose e soprattutto al proprio cuore per chiederci, senza paura, cosa vuoi, cosa desideri, che ti sta a cuore, quali sono quei tesori che guidano la tua vita. Cerco di essere molto attento a non demonizzare, per non cadere in un moralismo, quei tipici idoli del mondo adolescenziale. Nel fondo la fregatura degli idoli è che possono essere realtà neutre, a volte anche necessarie per vivere, o possono iniziare come passioni che poi diventato vere e proprie gabbie. Se non sono in grado di aiutare i miei genitori perché penso di dover assolutamente uscire tutti i sabato o venerdì sera, non sarà che sto “idololizzando” questo mantra del uscire sempre e a prescindere di tutto? Quando qualcuno mi cerca perché ha bisogno di qualcuno che lo ascolti e per me è prioritario il tempo trascorso in palestra, non sarà che sto “idololizzando” quel culto del corpo e dell’immagine che è così forte dalle nostre parti? Ogni volta che il nostro cuore non sceglie ciò che è essenziale o peggio ancora che non sa più distinguere l’essenziale dall’accidentale, è un po, secondo me, perché abbiamo lasciato che il cuore sia abitato da questi idoli, idoli che sono tanti quante persone ne esistono. È un qualcosa del cuore, non si può giudicare semplicisticamente dall’esterno, è un qualcosa con cui ognuno di noi deve fare i conti, per ritrovare quella vera pace e serenità interiore che tutti noi cerchiamo. 

Riassumendo, la fregatura degli idoli è che costituiscono delle realtà a cui diamo il compito di potere colmare la fame di infinito che ogni cuore umano porta dentro. E nessun infinito può essere colmato con il finito… solo scegliendo il seme, qualcosa in grado di dare vita, possiamo colmarlo. Ma affinché il seme dia vita deve morire, e non si basta a sé stesso, ha bisogno d’acqua buona, di terra fertile, della luce del sole. Così l’invito ai ragazzi non è soltanto a buttar via dalla vita i granelli di sabbia che la riempiono, e non soltanto a scegliere il seme della vita, ma anche a chiedersi che aspetti della mia vita, di quanto mi circonda, anche delle persone che mi circondano, sono veramente acqua, terra e luce affinché il mio seme possa morire e possa poi dare frutto. Non li nascondo però, molto brevemente perché non è l’oggetto della mia conferenza, che nessuno può salvarsi da solo, nessuno può guarirsi da solo, nessuno può bastarsi da solo… e che la medicina più necessaria al nostro cuore, che è l’amore, non basta se è solo umana, perché prima o poi si rivela insufficiente, perché insufficienti siamo noi uomini. E questo non lo dico con un tono di sconfitta o di pessimismo, ma perché credo veramente, con un sano realismo, e ne faccio esperienza ogni giorno nella mia propria pelle, che posso avere i migliori propositi, posso avere un grande desiderio di amare ed essere amato, ma ce qualcosa in me che prima o poi non ci riesce, ce qualcosa in me che mi porta a riconoscere che a volte, chi più chi meno, non ce la faccio… quell’amore a prescindere, incondizionato ed infinito di cui abbiamo bisogno, anche se molto vicino all’amore dei nostri genitori, non esiste tra l’umanità non perché la nostra umanità sia “brutta” o da buttare, come a volte pensiamo, ma perché la nostra umanità da sola non ci arriva. Credo che i ragazzi hanno apprezzato molto la conferenza e credo che un po di cose le hanno capite… capire i tesori a cui è attaccato il nostro cuore, è fondamentale per capire da dove iniziare a riprendere in mano a propria vita…

Partiamo verso le 9:20 e già alle 10 siamo nel nostro posto di lavoro. Arrivano in pratica tre camion immensi, e questo facilita molto il lavoro. Gli anni scorsi avevamo solo un camion, e quindi lo scarico diventava lento, soprattutto quando hai più di 100 persone lavorando. Avere tre camion e quindi tre “sorgenti” di lavoro ci permette fare tutto con maggiore efficienza. Così verso le 11:45 abbiamo finito di scaricarli, una prima pausa di 15/20 minuti e gruppo per gruppo iniziamo a portare i materiali per le case in ogni terreno. Abbiamo una pausa per mangiare delle favolose lenticchie con riso tra le 13:30 e le 14:30, e riprendiamo i lavori, concludendoli verso le 16:15. I ragazzi hanno lavorato bene, molto bene, e si sono aiutati tutto il tempo. È stata proprio una bella giornata di lavoro. Le persone del posto poi, casa per casa, ci offrono acqua, frutta e biscotti. Avrebbero voluto anche cucinare per noi, ma sappiamo che è un rischio che non possiamo, non posso, prendere per i ragazzi. 

Alle 17 iniziamo a tornare, e verso le 17:40 iniziano ad arrivare i primi gruppi e insieme ad essi le prime gare per farsi la doccia per primo. 18:30 celebriamo la messa e poi l’adorazione. È stata forse l’adorazione più bella della mia vita, c’era qualcosa di particolare in mezzo a tutta la stanchezza della giornata di lavoro, l’esperienza di povertà vista durante la giornata, più il senso di gratitudine per quanto si ha ma soprattutto per quanto si è. Era un’atmosfera particolare, non so bene spiegare, so solo descrivervi che tra noi consacrati, e tra praticamente tutti i ragazzi dello staff, nessuno è riuscito a trattenere le lacrime… non so spiegare il perché, so solo che è andata così… cioè, so spiegare le mie lacrime, ma non quelli degli altri…

Ore 19:30 e i ragazzi hanno già occupato le prime file dinanzi alla tv. Con un po di sana e pedagogica prepotenza, i membri dello staff interessati alla partita invitiamo i ragazzi a cederci il posto. Inizia la partita il Perù la domina largamente… mi sono promesso di non dare il peggio di me, come succede ogni volta che gioca il Perù… 3-0 e pariamo pure un rigore all’ultimo… non vi dico quanto ho strillato… e sono anche stato vittima di un attacco acquatico, in pratica mi hanno svuotato le bottiglie di acqua in testa e sono andato in stanza con un sorriso da un orecchio all’altro ma totalmente fradicio… devo riconoscere che in altre circostanze le conseguenze dello scherzetto avrebbero potuto essere devastanti, ma visti i festeggiamenti ho lasciato fare. Poi ho saputo che uno dei primi artefici è stato proprio padre Gonzalo, e non vi nascondo che già sto pensando alla mia rivincita!

Finita la partita abbiamo festeggiato Pietro, che di anni ne ha fatti 16, 4 mega torte sono finite in questioni di minuti… Poi siamo andati in auditorio, diviso in gruppi i ragazzi (questa volta i gruppi sono 7, sei dei ragazzi più uno dello staff, visto che tra i consacrati e il padre ora siamo in 7). Verso le 23:30 abbiamo iniziato con il rituale di mandare tutti a letto… credo che per le 12.15 erano tutti dentro alle stanze…

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Missioni 2019 Perù

Trovare un titolo al post di oggi non è stato molto difficile, come invece lo è stato nella maggior parte dei post precedenti. Ci siamo divisi un due gruppi per le giornate di domenica 30 e lunedì 1 luglio. 

ll gruppo dei ragazzi che partecipavano per la seconda volta delle missioni hanno visitato le linee di Nazca il primo giorno, e il secondo giorno hanno fatto un giro nel deserto sulle dune, sandboard, visita ad un oasi con tanto di tufo e giochi vari in acqua. Nelle parole di tanti, una delle giornate più belle della loro vita. “Assurdo” pensare che un adolescente possa affermare tutto ciò da una giornata passata lontani da ogni tipo di moda, da ogni tipo di tecnologia, solo passando del tempo con dei coetanei, godendosi la natura e divertendosi come bambini. 

Il gruppo dei ragazzi che partecipava delle missioni per la prima volta, ha visitato Cusco il primo giorno, e Machu Picchu il secondo. Era la prima volta che affrontavano la visita turistica per eccellenza in Perù senza cellulare. I ragazzi sono stati sinceri, avrebbero voluto avere la musica, e farsi qualche foto (ho inviato un fotografo apposta così da immortalare, diciamo, questa visita). Ma la valutazione è stata lontano dall’essere negativa, erano felici di aversi potuto godere le visite per ciò che sono, senza il tramite del cellulare e la sua fotocamera che riduce di tanto la realtà, e confrontandosi tra di loro, condividendo più di quanto avrebbero fatto se muniti con le loro amate canzoni e i loro quasi irrinunciabili social. 

Poi storie da raccontare ce ne sono in entrambe gite, ma non ci basterebbe questo post. L’unica cosa che mi è sembrata illegale, è chi ha scelto di mangiarsi un hamburger vegano nel miglior ristoranti di hamburger del Perù e che si trova a Cusco! Incomprensibile veramente!

Mentre i ragazzi di Nazca riposavano fino a mattina inoltrata, i ragazzi di Cusco si svegliavano verso le 5 del mattino per prendere il volo che li avrebbe portato a Lima. Atterrati verso le 10, alle 14 erano a Cañete, riuniti nuovamente tutti quanti. Abbiamo avuto dei nuovi arrivati anche. Si sono aggiunti altri due consacrati e insieme a loro uno dei ragazzi che poi farà il viaggio in Ecuador. Siamo in tutto 80 ragazzi, 9 universitari dello staff, sei consacrati, un sacerdote e un matrimonio.

Abbiamo pranzato insieme e poi ci siamo radunati in auditorio. Ho fatto un brevissimo discorso ricordando il motivo per il quale siamo qua, un po di regole, e le rispettive conseguenze se qualcuno decidesse di ignorarle. Poi siamo passati ai caposquadra e i membri di ogni squadra. Tra i caposquadra ci sono ragazzi e ragazze sia del primo che del secondo anno. Una cosa molto bella è che ad ogni nome gli applausi di tutti gli altri ragazzi si facevano sentire, una sorta di dimostrazione non soltando dell’affetto nei loro confronti, ma della riconoscenza del ruolo che si sono guadagnati non soltanto con la loro testimonianza durante la prima settimana di lavoro, ma con il loro modo di porsi nei confronti di tutti e tutto, con positività e generosità. 

Verso le 15.30 siamo saliti sui pullman, tre in tutto, e due macchine. Dopo circa 40’ di strada siamo arrivati alla baraccopoli dove costruiremo 28 case. Abbiamo incontrato 24 delle 28 famiglie. 4 di loro erano ancora a lavoro e le conosceremo domani. Abbiamo diviso i ragazzi per squadre, e messi in un estremo del campo da calcio della zona. All’altro estremo le famiglie. Una ad una facevo l’appello, si avvicinava chi veniva nominato e sceglieva, tra una marea di strilli da parte dei ragazzi, una delle squadre. Una volta che tutte le famiglie avevano scelto il gruppo che avrebbe costruito per la loro futura casetta, sono andati insieme alle loro attuali case. L’idea era di conoscersi a vicenda, vedere come vivono attualmente queste famiglie. I ragazzi restano impressionati: il tempo è molto fastidioso, una piaggia sottile sottile fa di sfondo, un cielo grigio, un’umidità altissima, il terreno fangoso. Poi ci sono gli odori. Ci sono delle mucche, alcune delle famiglie allevano galline e porcellini d’india. Ce anche odore di spazzatura, spazzatura bruciata e anche di escremento. Le famiglie vivono tutte in condizioni poverissime, nessuna ha un pavimento, tutte a contatto con la terra. Le mura sono fatte di pezzi di paglia, e chi è riuscito a risparmiare un po più di soldi ha delle mura fatte di pezzi di legno sottilissimo, mure legate tra di loro con qualche corda. I tetti sono fatti da teli, teli di quelli che si usano per raccogliere le patate del campo. Non c’e acqua, ogni due o tre giorni passa un camion che riempie dei contenitori che ognuno ha dentro casa. Non c’è neanche elettricità, e chi ce l’ha è solo perché la prende illegalmente da qualche sorgente lì vicino. Ovviamente tutti i collegamenti sono “artigianali”, fatti un po a caso e molti di essi all’intemperie. Le condizioni delle cucine sono pietose, pieni di insetti e in tanti casi anche di spazzatura. Non hanno servizi igienici, neanche la fogna. Ogni casa ha un buco scavato in terra, di almeno due metri, dove fanno i loro bisogni. Alcune case hanno un ambiente unico che funge per tutto, altre hanno divisioni per stanze, che contengono un umile letto e un materasso di paglia, duro quasi dormire sul pavimento. 

Si torna a casa grati, ma sconvolti. Grati per il weekend passato insieme, scoprendo la natura, divertendosi, facendo un buon uso del proprio tempo, che è unico quanto è unica la propria vita. Si torna a casa sconvolti, per l’ingiustizia, la sproporzione, il senso di impotenza di quanto hanno visto, e sentito. Perché la “sofferenza” non si ferma a quanto visto con gli occhi, ma va oltre quando si sentono le storie. Si torna a casa grati di quanto la vita immeritatamente ci ha concesso, e spero anche con la volontà di fare di questi giorni che vengono qualcosa di speciale e utile, con senso che da senso alla propria vita, quel senso che solo la gioia di donare ce lo può far vivere. 

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Il nostro corpo di elite si sveglia alle 06:30, 7 colazione e partenza subito verso i cantieri per finire di lavorare con il cemento. Il resto del gruppo fa la sveglia normale e verso le 9 partiamo per fare le rifiniture del lavoro. Così si va avanti fino alle 11.30 quando arrivano i bambini della scuola e le loro famiglie. Hanno organizzato per noi una serie di presentazioni, dai più piccoli fino alle madri, con balli tipici, recitazioni, e una parte finale in cui le persone del posto ballano insieme ai ragazzi. È vero che ce qualcuno che non se la sente e fa fatica ad alzarsi per ballare, ma la stragrande maggioranza dei ragazzi esce ben volentieri sulla “pista” da ballo, una grande festa insomma. 

Finite le presentazioni si passa alla benedizione dei lavori. Prima di tutto però una delle mamme dei ragazzi che si beneficeranno della scuola dirige ai ragazzi delle sentite parole, assicurando loro una preghiera continua sia per ognuno di loro come di tutte le loro famiglie. In seguito il padre con in mano l’acqua benedetta, fa il giro dell’opera benedicendo i frutti del lavoro di questa settimana e benedicendo anche tutti noi, riservando ai bambini più piccoli una benedizione speciale, disegnando sulle loro fronti il segno della Croce.

In seguito pranziamo tutti insieme. Le famiglie si sono messe d’accordo per preparare ai ragazzi una pasta al forno strepitosa, cioè strepitosa dico io che pur vivendo da tanto in Italia non sono così esigente con il cibo, anche se la pasta come in Italia non esiste da nessuna parte. E oltre la pasta un ottimo pollo al forno e della verdura cotta. Finiamo il condividere con dei picarones, ormai famosi tra i ragazzi che sono venuti in Perù: una pastella fritta con del miele di canna bollito con diversi tipi di frutta. 


Salutiamo i nostri amici, gli operai, le mamme, qualche papa, e tutti i bambini, e ci avviamo verso casa. Ci dividiamo in due gruppi, uno molto numeroso che torna nella casa che ci accoglie, e uno fatto da 14 eroi, me compresso, che andiamo in una delle case della nostra comunità per vedere i quarti di finale della coppa America, Perù- Uruguay. Chi se ne intende di calcio sa che Uruguay era il chiaro favorito a vincere i quarti, ma si sa anche che nel calcio sudamericano tutto può accadere, e infatti il Perù ha vinto ai rigori… devo dire che sono stati i dieci minuti più angoscianti dei miei ultimi mesi di vita (ovviamente sto un po esagerando), e che ho strillato come non lo facevo da tanti anni (questo è vero invece)… poi, forse dovrei un po vergognarmi, la gioia che sia stato Suarez a sbagliare il rigore ha fatto tutto ancora più magico! Ricordo ancora il morso a Chiellini nella fase dei gironi del mondiale di Brasile 2014 nella partita Italia – Uruguay… infatti un po del mio cuore è ormai tricolore. Torniamo a casa, io gassattissimo, i ragazzi anche (ormai sono anche oro un po peruviani nel cuore), e ora ci tocca ritrovare la pace interiore, per disporci nel miglior modo possibile per la Santa Messa. 

Iniziamo verso le 17:15. Nella sua omelia il padre insiste sul fatto che Gesù, da quanto dice il Vangelo di Luca, prese la decisione, anzi la ferma decisione di mettersi in cammino. In questi giorni i ragazzi hanno avuto l’occasione di scoprire tante cose nuove su se stessi, o dare un valore diverso a qualcosa che sapevano già di avere, ma che magari non riuscivano a dare un vero valore dalle nostre parti. La sfida lanciata ad avere uno sguardo profondo sulla realtà e a farsi le domande importanti, essenziali, in qualche modo ha fatto effetto, non so se con tutti, ma con molti, e le domande esistenziali stanno all’ordine del giorno… i momenti di condivisioni sono tanti, nei gruppi si passa la maggior parte del tempo a rispondere a dubbi, domande, confrontare opinioni, arricchendoci mutuamente… ma è nei singoli momenti, un po presi al improvisto che escono i discorsi forse più belli, perché più personali. A volte basta condividere qualcosa di bello per far cambiare tutto. Come quel ragazzo che mentre mi accompagnava a lavare la macchina di mio padre (che mi aveva prestato per questa settimana), mi disse che il saluto con l’anziana che le era stato affidata era stato molto commuovente. Che lui si era fatto fotografare e stampare la foto con lui e lei e altri ragazzi, e che gliela aveva regalata. Che l’anziana, ormai abbandonata da anni, gli disse: “Nessuno mi aveva trattato con così tanto affetto in vita mia. Quando morirò, voglio essere seppellita con questa nostra foto insieme.” Credo che qualsiasi ulteriore commento a queste parole sia solo inutile o banale, posso solo dire che nell’ascoltare queste parole mi scese una lacrima e rimasi in silenzio mentre continuavo a guidare.

Tutti i ragazzi bramano per fare il bene, per scoprire il vero e per contemplare il bello, ma tutti fanno fatica tante volte a mettere in pratica i buoni propositi. Riprendendo le parole di Gesù ritroviamo un invito ad essere fermi nella decisione di andare avanti, che quanto scoperto in questi giorni può veramente essere un fondamento per costruire qualcosa di nuovo, a volte in continuazione con quanto abbiamo fatto finora con la nostra vita, e in altre occasioni come un cambiamento radicale. È un invito a prendere in mano la propria vita, a scegliere l’essenziale, senza trascurare le responsabilità di ogni momento di crescita nella propria società, ma senza mai perdere di vista che ciò che ci sfama veramente, e che ci consolida come persone, è la sincera volontà di amare sempre di più, nelle sue molteplici forme. Questo non vuol dire che non ci saranno cadute, o tanti momenti in cui ci tireremo indietro. Vuol solo dire che nonostante le avversità della vita, uno scelga sempre il Vero, il Buono, il Bello. 

Finita la messa abbiamo avuto una riunione di coordinazione, sia per chi farà i due giorni di “riposo” a Nazca e Paracas e sia per chi lo farà a Cusco e Machu Picchu. Il diario di viaggio si ferma quindi fino a martedì 2, quando ci rincontreremo tutti a Cañete!

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Da molti punti di vista il venerdì non è molto diverso dai giorni passati. La sveglia è stata però 15 prima del solito, per problemi logistici degli orari di altre attività qua dove dormiamo e mangiamo. Di conseguenza si inizia anche poco prima con il lavoro nel cantiere, i ragazzi vengono divisi in gruppi e si ricomincia con la missione. È il quinto giorno di lavoro pesante (tranne che per 10 ragazzi scelti tra i più grossi, ma anche “casinisti” che sabato dovranno partire un’ora prima degli altri per poter finire con i lavori in cemento) e sabato sarà una giornata dedicata alla sistemazione e pulizia del posto. La nostra troppa di elite è stata scelta dai ragazzi universitari dello staff, che hanno seguito i lavori durante tutta la settimana e sanno bene su chi contare. Saranno loro, con il mio “ok”, a scegliere i 14 futuri capo squadra per i giorni che trascorreremo a Cañete costruendo 28 case pre fabbricate. E in questa scelta, come l’anno scorso, non esistono preferenze tra chi viene per la seconda volta e chi viene per la prima, gli unici criteri di scelta sono l’atteggiamento durante questa prima settimana di costruzione insieme alle capacità di guidare una squadra. So già che la scelta sarà tosta, soprattutto in base al primo criterio, perché pur essendoci qualche ragazzo poco più vivace degli altri, devo dire che nel lavoro sono stati tutti molto generosi, entusiasti e allegri, creando tra di loro un ambiente di lavoro molto gradevole. 

Venerdì è anche stato l’ultimo giorno per visitare le diverse istituzioni in cui siamo stati divisi da lunedì, e quindi l’ultima volta, al meno quest’anno, in cui passeremo del tempo con quei bambini e anziane che hanno passato dei pomeriggi con noi, rubando in molti casi un pezzo di cuore dei ragazzi. In ogni posto visitato i ragazzi si sono organizzati per donare loro qualcosa di diverso di quanto fatto in questi ultimi giorni. Diciamo che con i bambini è abbastanza facile, i gruppi sono andati in giro a comprare un po di merendine e hanno organizzato una piccola festa, comprando anche per dei bambini qualche regalo e donando loro quanto portato dall’Italia. 

Nella casa delle anziane abbandonate invece ci vuole un po più di creatività, e attenzione, sono persone che dal punto di vista sono molto fragili, piccoline, e a volte neanche loro stesse sono consapevoli fino a dove possono o non possono arrivare. Alla fine in qualche modo ci si organizza per portarle in giro nel centro della città nelle loro sedie a rotelle. Erano felicissime, e i ragazzi si sono divertiti veramente tanto, a tratti simulando un vero e proprio gp per le strade, un po disastrate a causa dei lavori, del centro storico di Arequipa. 

Considerando che domenica saremo divisi in due gruppi, chi va a Cusco e chi va a Nazca, e non ci sarà con noi padre Gonzalo, e tenendo conto che le feste di precetto sono due, quella del 29 giugno di San Pietro e San Paolo e quella propria della domenica, decidiamo di fare le messe rispettivamente oggi e sabato. Nella messa di oggi, quindi celebrando Pietro e Paolo, quando è arrivato il momento delle intenzioni, il padre ha avuto la geniale idea, dopo aver chiesto di esprimere le nostre intenzioni senza paura a voce alta così che tutti possano pregare per esse, di chiedere uno ad uno il nome di una persona che li è rimasta nel cuore tra quelle che ha conosciuto in questi giorni. Così uno a uno, in quella piccola cappella riempita da un centinaio tra adolescenti e giovani, ha detto il nome di quel bambino o bambina o quella anziana con cui ha passato del tempo in questi giorni. Immaginerete che il giro è durato un po, e nel silenzio piano piano lo spazio si riempiva con tutti questi nomi… finalmente arrivano le parole del padre, che chiede Dio di prendersi cura di ognuna di quelle persone. È stato molto bello, ed è riuscito molto bene. 

Oggi il pensiero va a tutte queste persone che i ragazzi hanno incontrato in questi giorni, e alla lezione di vita che in qualche modo ci hanno dato. Non ce molto da dire, o meglio si potrebbero sicuramente dire tante cose, ma il messaggio, l’insegnamento è chiaro quanto coinciso. Non sono le nostre malattie o sofferenze in generale a farci morire lentamente in vita. Probabilmente l’esperienza di chi è stato rifiutato da chi più doveva garantirti l’amore nel caso degli orfani, o quella di chi è stato messo da parte in quanto ritenuto un intralcio a causa dell’età se vediamo le anziane abbandonate, sono qualcosa di molto difficile da accettare e integrare nella propria vita. “Perché a me?” sono le parole che ognuno di noi pronuncia nel proprio cuore quando passa per un momento difficile, e loro, i bambini e gli anziani, e anche i malati, non sono l’eccezione a questa domanda, domanda che forse non pronunciano solo nel proprio cuore ma che strillano ai quattro venti. Io stesso non saprei che sguardo avere su di me o sulla mia vita se fossi stato messo da parte così, tra l’altro nel momento di maggiore fragilità, quando ciò che è più importante da garantire a una chiunque persona è proprio l’esperienza dell’amore. Ebbene, nonostante un’esperienza dura come questa, ha la possibilità di salvezza quando arriva un qualcuno, uno sguardo, che ti ricorda che sei amato, che conti, che vai bene così, e che per questo qualcuno, anche se per pochi giorni, starai al centro delle sue attenzioni, non sarai più invisibile, ma diventerai in qualche modo quel invisible che è l’essenziale, quell’invisibile che nel rendersi visibile diventa possibilità di un amore concreto e disinteressato. È in fin dei conti, l’invisibilità, l’anonimato, a ucciderci in vita, quando siamo “oggetto” dell’indifferenza. 

La giornata conclude con un incontro in auditorio, dove leggiamo i nomi della squadra delle forze speciali che dovrà concludere il cemento. Leggo nel fogliettino che mi ha fatto arrivare uno dei ragazzi dello staff: Pietro (quello grosso), Perani, Pedersoli, Dino, Giacomo (Rondoni), Tommaso Enrico, Pietro d’Orazio, Lodo Sturani, Tommy Sassoli, Giacomo Roncoroni. In seguito i ragazzi restano in auditorio per fare la meditazione personale sul seme e la sabbia mentre le ragazze vengono divise in cinque gruppi per la riflessione di gruppo.

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Da giovedì abbiamo deciso di fare un piccolo ma sostanziale cambiamento dell’orario. Anche se va incontro a uno dei misteri più grandi delle missioni: come mai dopo ore di fatica fisica e ore passata a servire presso diverse istituzioni per persone bisognose da diversi punti di vista, alcuni dei ragazzi non arrivano stanchi morti la sera così da garantire che al primo minuto libero vadano subito a letto? E invece se per caso mettiamo uno dei momenti di riflessione un buon 20% del gruppo fa molta fatica a seguire a causa del sonno?

Vada come vada, o sia come sia, abbiamo deciso di spostare le meditazioni, quando ci sono, alla mattina, lasciando i gruppi per i post cena. La proposta è stata decisamente azzeccata, sia dal resto di membri dello staff che dai ragazzi. Perché non è che i ragazzi dormivano volentieri durante la conferenza. Direi che tutti ci tengono a seguire e ad ascoltare quanto abbiamo da dire, e ci tengono ancora di più a partecipare ai gruppi. Quindi il giovedì inizia con una conferenza post mangiato e questa volta è a carico di Ben, che decide di usare molte immagini per spiegare, raccontare, una tensione interiore che ce nell’uomo, quella dell’infinito e del limite, del seme e della sabbia.

Alla vista un granello di sabbia e un seme non sono molto diversi tra di loro, ovviamente dipendendo da quale seme, e sicuramente non sottoposti al microscopio. Pur simili in apparenza, un seme porta di sé la potenzialità della vita, ha qualcosa di infinito nel suo interno, può fiorire e dare luogo ad altri semi che a sua volta daranno luogo ad altri frutti o alberi, e così via. Da un piccolo seme, e se garantite determinate circostanze esterne, teoricamente possiamo avere la possibilità di ricrearne tantissima vita. Ma affinché esso succeda, il seme deve morire, o trasformarsi, ma deve continuare un processo di maturazione. La sabbia invece è morta, non porta con sé la vita, e uno può accumulare tonnellate di granelli di sabbia e questo non cambierà la condizione iniziale di essa, rimane una materia inerte incapace di dare/trasmettere vita, e già morta in partenza. 

Ora ogni essere umano porta in sé il marchio dell’infinito. Non so dare bene una spiegazione a questo, so solo che se uno sinceramente si mette la mano al cuore, potrà trovare che dentro di sé, in un modo o altro e sotto diverse manifestazioni, ce in noi una tendenza al “di più”, non ci accontentiamo facilmente, e se lo facciamo sappiamo di stare rinunciando a qualcosa di importante per noi. Di ciò che è bello, buono e vero, vorremo che ci siano tonnellate di tonnellate della nostra vita, e pur accumulando tutto ciò, ci percepiremo sempre e in qualche modo insoddisfatti. E questa storia dell’infinito è parecchio enigmatica devo dire, perché noi essere umani facciamo conoscenza della realtà, o delle realtà, o per esperienza o perche ci fidiamo di qualcuno che la racconta. Impariamo facendo prove, sbagliando, vivendo rapporti, o in ciò di cui non possiamo fare esperienza decidiamo di fidarci di qualcuno o che ne ha fatto esperienza diretta, o che a sua volta ha deciso di fidarsi da qualcun altro. Più o meno è con tutto così, dagli aspetti più scientifici o razionali, a quelli che fanno parte della sfera dell’emotività. Sappiamo dire cosa sono solo quando abbiamo accolto un’esperienza o quando abbiamo deciso di fare affidamento a qualcuno. La cosa strana con l’infinito è che di esso non possiamo fare esperienza, come non possiamo fare affidamento a nessuno visto che nessuno fa esperienza di ciò. E nonostante questa constatazione, è qualcosa che possiamo pensare, è qualcosa che possiamo anche a volte percepire sotto forma di ansia o nostalgia, è quella irrequietezza nascosta nel cuore di ogni persona che ci fa vivere. Non abbiamo mai fatto esperienza dell’infinito e nonostante ciò in qualche modo sappiamo di desiderarlo. 

Può un essere “finito”, come lo siamo noi essere umani, riempire l’infinito della propria anima? A quanto pare la risposta sarebbe un no secco, anche perché in questo mondo ci sono solo altre realtà finite incapaci di per sé di colmare un infinito. Ma se rimanessimo così saremo destinati alla frustrazione, o a nascere e rimanere infelici come mi diceva uno dei ragazzi durante i gruppi: “io vorrei più della perfezione, vorrei qualcosa di più grande, anche in amore, ma secondo me siamo nati infelici, quasi come se avessimo una colpa”. E al di là di come ha formulato la frase, il contenuto è sommamente importante, perché è un cuore che volendo sempre di più, riconosce che dentro di sé e da solo non ce la può fare. 

Credo che a questo punto la figura del seme e della sabbia può venirci incontro. Siamo essere finiti con un desiderio interiore di infinito che nulla in questo mondo può colmare, saziare. Questo fatto però non può portarci a non far nulla o ad arrenderci, ma a decidere se nella nostra vita sceglieremo seme o sabbia. Passiamo tante volte nella nostra vita accumulando sabbia, cose importanti, cose non così importanti, a volte realtà fondamentalmente materiali, accumulandole, senza trovare mai una vera e propria soddisfazione, come quando compriamo qualcosa di nuovo a cui ci teniamo e l’euforia iniziale dura poco, e piano piano diminuisce. Ma la sabbia non sono soltanto le realtà materiali ma possono anche essere determinate esperienze che invece di donarci vita ce la tolgono, come quando scegliamo di essere egoisti per paura della fatica, o di farci del male, o rimanere fregati. Invece possiamo scegliere il seme, cioè determinate realtà essenziali, che ognuno in cuor suo sa, che ci di ridonano la vita che abbiamo donato, come quello che i ragazzi fanno qua in Perù per esempio. È scegliere un seme che ha la possibilità di trasformare e dare vita al nostro interiore e trasformare con la sua forza, piccola o grande che sia non importante, ciò che ci circonda. Dare vita, quante volte nella giornata scegliamo di dare vita? La risposta, soprattutto per un adolescente, potrebbe essere drammaticamente negativa, e forse lo sarebbe anche per un adulto. 

Ho un amico che da qualche tempo passa per un momento di depressione molto forte. Oltre il percorso medico che uno deve fare per affrontare questo momento così duro, e che può durare anni, il mio amico, che ha una fede molto forte e grande, ha dovuto rinunciare a molte realtà nella sua vita, cioè in questi ultimi anni. Nonostante la sofferenza interiore, lui però ha scelto di essere seme, ovvero di scommettere sul dare vita. Pur trovandosi una situazione interiore difficili non ha mai smesso di essere disponibile all’ascolto da chiunque avessi bisogno di lui, e persino nei momenti di più difficoltà interiore e quasi disperazione, ha scelto di fare/sistemare un giardino, in senso letterario, perché si tratta di una realtà che gli permette di ricordare, e vivere, che la nostra vita ha solo senso quando siamo in grado di dare/trasmettere vita. Guardate il caso, la frase che compare nella foto e che si trova su uno dei muri della scuola recita: “Non lasciate che nessuno si allontani da te senza essersi sentito più felice”.

A volte passiamo la nostra esistenza accumulando sabbia, senza accorgercene che alla fine di tutto ci ritroveremo con un deserto, grande quanto sono state le nostre scelte egoistiche. Quando in realtà basterebbe scegliere un piccolo seme che può dare vita a realtà inaspettate. Senza però dimenticare che il seme per dare vita, deve morire…

Finita la conferenza di Ben, siamo partiti al nostro cantiere. La parola d’ordine allo staff è stata: massacrateli di lavoro che ieri sera alcuni dei ragazzi avevano ancora energie la sera e non andavano a dormire. Avevo detto qualche giorno fa che le prime notti sono fantastiche, i ragazzi sono stanchi tra lavoro e fuso orario e quindi possiamo tutti dormire il giusto, ma già da mercoledì sembrava che le riserve inesauribili di energia di alcuni dei ragazzi cominciavano ad accendersi. Il fatto sta che i ragazzi più vivaci sono stati scelti per fare e trasportare il cemento! Mentre il resto della truppa ha continuato con le infinite catene di secchi per trasportare terra da un luogo ad altro. La sera dopo mangiato, breve festeggiamento dei 17 anni di due dei ragazzi che stanno qua con noi, mega pezzi di torta per ognuno, e poi gruppi maschili e meditazione personale per le ragazze. Finito tutto, alcune delle ragazze hanno selezionato e classificato i diversi vestitini portati dall’Italia da regalare, mentre altri tra ragazzi e ragazze hanno partecipato ad accessi tornei di scopone!

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